Julián

 

Dopo il nostro incontro al Faro scendemmo verso il paese, io davanti in macchina e Sandra dietro in motorino. A volte spariva dallo specchietto retrovisore e poi ricompariva. Doveva ritornare a Villa Sol con un sacchetto della farmacia fra le mani che giustificasse la sua uscita a quell’ora di sera. Purtroppo per lei ormai si era aperta la porta della simulazione, dell’inganno, dell’attenzione a certi dettagli per nasconderne altri. Il sacchetto della farmacia avrebbe nascosto il nostro incontro, come la vecchiaia di Fred e Karin nascondeva la loro malvagità.

Le proposi di guidare il motorino fino in paese, ma Sandra rifiutò risolutamente, disse che era più abituata a quel trabiccolo, che mi poteva entrare qualcosa nell’occhio e non voleva che corressi rischi. Io però non mi preoccupavo per lei, davo per scontato che se era riuscita a sopravvivere fino a quel momento, avrebbe continuato a farlo. In realtà non volevo preoccuparmi più del dovuto e perdere di vista l’obiettivo che mi aveva portato fin lì, soprattutto adesso che avevo fatto una scoperta fondamentale, o meglio, che l’aveva fatta Sandra. Avevo appena capito che il brano della lettera che il mio amico Salva mi aveva mandato a Buenos Aires, quello in cui diceva che lì avrei potuto trovare l’eterna giovinezza, non era un modo di dire. Era una pista che si sarebbe risolta in un nulla di fatto se non mi fossi imbattuto in Sandra; e Salva non avrebbe certo potuto prevedere che Sandra sarebbe entrata in questa storia, forse perché aveva solo qualche indizio su quel preparato che facevano arrivare chissà da dove e non voleva che me ne lasciassi ossessionare. A pensarci bene, però, nella lettera avrebbe anche potuto raccontarmi tutto quel che sapeva in modo che io non dovessi cominciare da zero.

Sandra parcheggiò il motorino davanti alla croce verde di una farmacia. Mi fermai qualche metro più avanti e la osservai dallo specchietto retrovisore mentre entrava e usciva dal negozio e poi saliva in motorino, guardando verso la mia direzione per ripartire. Stava tornando a Villa Sol. Avrebbe dovuto continuare a stare gomito a gomito con quei mostri che conoscevano mille modi di uccidere la gente e per i quali la vita non era una cosa sacra, ma solo un’arma.

Io e Salva avevamo visto molte cose a Mauthausen. Avevamo visto scheletri che camminavano e mucchi di corpi nudi riversi sulla neve del cortile, una strana specie di branco color rosa cenere. I nostri corpi si erano trasformati nella nostra vergogna. I crampi allo stomaco per la fame, le malattie, la mancanza di intimità. Tutto si riconduceva al corpo. Non era facile elevarsi al di sopra delle proprie spoglie mortali, così un giorno sì e uno no pensavo al suicidio. Era una forma di liberazione: mi faceva sentire libero l’idea che tutta quella sofferenza avrebbe potuto avere termine, che se lo avessi voluto avrei potuto metterle fine io stesso. La morte era la mia salvezza. Hitler era un pazzo e ci aveva fatti affogare tutti nella sua mente malata. Vivevamo nel cervello ripugnante di quell’uomo, dove succedevano le atrocità più mostruose, e c’era solo un modo per uscire di lì: sarebbe dovuto morire lui o sarei dovuto morire io. Non sopportavo l’idea che una realtà meravigliosa come la vita, con il suo sole, i suoi alberi e le sue canzoni, fosse qualcosa di terrorizzante. Ma non volevo che mi uccidesse la sua follia. Avrebbe dovuto essere un atto della mia volontà, e se fosse stato possibile l’avrei fatto guardando il cielo. Così un giorno, mentre ero seduto accanto alla baracca, tirai fuori dalla tasca una pietra che avevo preso alla cava e mi tagliai le vene. Qualcuno mi vide, lo disse a Salva e lui per l’appunto mi salvò. Non so come riuscì a far smettere di sanguinare i tagli, ma mi curò e mi disse che, qualunque cosa fosse successa, anche se eravamo in una situazione disperata, anche se venivamo umiliati ed eravamo la razza peggiore di schiavi, la mia vita era la mia. Certo, non era una buona vita, non era una vita decente né degna di essere vissuta, però era la mia, nessuno poteva viverla al posto mio. E sì, Salva, alla fine Hitler è morto prima, ma quanto male ha lasciato, quanto male mi ha lasciato nel cuore. Spesso sogno che la guerra l’hanno vinta loro e mi sveglio madido di sudore.

Ti riferivi alle fiale che si iniettano quei vecchi nazisti quando parlavi dell’eterna giovinezza, non è vero? Magari in uno dei loro innumerevoli e orribili esperimenti hanno trovato una formula per non invecchiare e la usano solo per sé stessi. Dove la produrranno?

Capivo sempre meglio le intenzioni di Salva. Aveva lasciato nelle mie mani un grande progetto, ma io lo avrei dovuto fare mio, con le mie indagini e le mie motivazioni. Sicuramente Salva sapeva molto, se era arrivato a scoprire l’elisir dell’eterna giovinezza, ma non voleva decidere per me, non voleva usarmi per vendicarsi. Credo volesse mettermi un giocattolo fra le mani, farmi un regalo: voleva darmi un’ultima opportunità.

Se quella supposizione era vera, allora sapevo già come danneggiarli: bastava sospendere la somministrazione dell’elisir. Karin si sarebbe contratta fino a ritorcersi su una sedia a rotelle, Alice si sarebbe seccata come l’uva passa e gli uomini avrebbero perso tutta la loro vitalità. Mi chiesi se i loro scagnozzi, quel Martín, ad esempio, sapessero cosa trasportavano quando portavano i pacchetti da una casa all’altra.

Il problema era Sandra. Lei era un caso di coscienza. Se le avessi fatto pressione, sarebbe stata capace di portarmi una delle fiale. Avremmo potuto analizzarne il contenuto e metterci sulle tracce del laboratorio in cui era stato sintetizzato. Ma sarei stato capace di mettere in pericolo una ragazza con tutta la vita davanti che aveva cercato di proteggermi impedendomi di guidare il suo motorino? D’altro canto, dovevo arrivare alla fine. Lo dovevo a Salva, che si era ricordato di me negli ultimi istanti della sua vita e che mi stava dando la possibilità di non morire da fallito.

Il Profumo delle Foglie di Limone
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